giovedì 16 febbraio 2012

Pahor B. e il dramma della consapevolezza


"Nella grande caldaia cubica appoggiata sopra il forno", dice, "si faceva scaldare l'acqua delle docce, che vedete al di là di quel portello vetrato, a destra". I giovani si accalcano intorno al finestrino, mentre io ho l'impressione che giù dalla nostra pelle scorra ancora l'acqua saponosa, gialla di quel sapone sabbioso e ruvido, e che i corpi di quelli senza più forze giacciano ancora sul cemento e rantolino sotto gli zampilli caldi. Mi viene da pensare che le prime volte neppure io ero conscio di quale materiale fosse usato del fuochista per scaldare l'acqua; eppure sento che, anche se l'avessi saputo, nulla sarebbe cambiato nel mio stato d'animo. Questa insensibilità mi contraddistingue nella folla dei gitanti domenicali; allo stesso tempo mi pare che i morti, allora, offrendomi in dono un po' d'acqua calda, mi abbiano accolto in una confraternita più sacra di tutte le confraternite generate dalle religioni. La voce proveniente dell'altoparlante dice ancora che il lungo attrezzo ricurvo appeso al muro serviva al fuochista per livellare la cenere, mentre col lungo tirabrace l'ammucchiava.

da Necropoli
di Boris Pahor
Fazi Editore 2009

Una breve doccia calda, concessa saltuariamente, ti dà un poco di sollievo alle ossa devastate dal gelo e dalla fame, ma sai che il fuoco della caldaia è alimentato dai corpi di chi ti dormiva accanto.

Slavo triestino, non ebreo, eppure anche lui vittima di quello stesso destino che ha accomunato esseri umani deportati da ogni nazione per il solo fatto di appartenere a minoranze invise al potere, di militare tra gli oppositori ai regimi totalitari o di essere loro parenti, amici o semplicemente conoscenti. Il dramma della consapevolezza del proprio progressivo abbrutimento, del farsi insensibile per istinto di sopravvivenza, del lento inesorabile venire meno di tutto ciò che permette di distinguere un essere umano da una bestia.

                             



«Necropoli riesce a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessità della storia».
dall'introduzione di Claudio Magris



Campo di concentramento di Natzweiler-Struthof sui Vosgi. L’uomo che vi arriva, un pomeriggio d’estate insieme a un gruppo di turisti, non è un visitatore qualsiasi: è un ex deportato che a distanza di anni torna nei luoghi dove era stato internato. Subito, di fronte alle baracche e al filo spinato trasformati in museo, il flusso della memoria comincia a scorrere e i ricordi riaffiorano con il loro carico di dolore e di commozione. Ritornano la sofferenza per la fame e il freddo, l’umiliazione per le percosse e gli insulti, la pena profondissima per quanti, i più, non ce l’hanno fatta. E come fotogrammi di una pellicola, impressa nel corpo e nell’anima, si snodano le infinite vicende che ci parlano di un orrore che in nessun modo si riesce a spiegare, unite però alla solidarietà tra prigionieri, a un’umanità mai del tutto sconfitta, a un desiderio di vivere che neanche in circostanze così drammatiche si è mai perso completamente. Scritto con un linguaggio crudo che non cede all’autocommiserazione, Necropoli è un libro autobiografico intenso e sconvolgente. E se Boris Pahor ci racconta la sua esperienza del mondo crematorio perché la memoria non si perda e la storia non sia passata invano, quella che ci dà non è però solo la fedele testimonianza delle atrocità dei lager nazisti, è anche un emozionante documento sulla capacità di resistere e sulla generosità dell’individuo.

«Un libro sconvolgente, la visita a un campo della morte e il riaffiorare di immagini intollerabili descritte con una precisione allucinata e una eccezionale finezza di analisi».
«Le Monde»

«Un memoir indimenticabile ed evocativo. Con la sua voce intensa e originale Pahor penetra nel cuore dei lettori e li conduce nel luogo dove perse la maggior parte dei suoi compagni e molto di sé».
«Kirkus Review»

«Non c’è modo di evitare lo sguardo coraggioso e diretto di Boris Pahor. Il suo nome è stato giustamente accostato a quello di Primo Levi, Imre Kértesz e Robert Antelme». «Süddeutsche Zeitung»

Vincitore del Premio Internazionale Viareggio Versilia 2008
Vincitore del premio della giuria al Premio Napoli 2008
Vincitore del Premio Latisana per il Nord-Est 2008
Vincitore del Premio Resistenza 2008
Vincitore del Premio Napoli "Libro dell'anno" 



LAPOLIS.IT - 13/02/2008
PAHOR, LA COLPA DI ESSERE SOPRAVVISSUTO
di Claudio Magris

Durante una visita al Lager di Natzweiler-Struthof, nel quale molti anni prima si era trovato faccia a faccia con l' orrore e l' abiezione più inconcepibili della nostra storia, Boris Pahor osserva un carpentiere che sostituisce - nel campo che è ora un luogo di memoria e di pellegrinaggio per ex deportati come lui e per turisti dell' anima più o meno realmente consapevoli di ciò che stanno vedendo - alcune assi marcite di una baracca dove un tempo avevano vissuto (se in tal caso è lecito usare questo verbo) i prigionieri. «Il mio animo - scrive - si ribellava a quelle toppe bianche frammiste alle assi annerite, dilavate e consunte; non tanto per il colore, perché sapevo che quell' operaio avrebbe ridipinto le nuove assi rendendole uguali alle vecchie; semplicemente non potevo sopportare la presenza di quei pezzi di legno grezzo piallato di recente. Era come se qualcuno cercasse di inoculare cellule fresche e viventi in un putridume morto, come se qualcuno innestasse una gamba bianca in un mucchio di mummie annerite e appiattite. Ero per l' intangibilità della dannazione. Ebbene, ora non riesco più a distinguere i pezzi aggiunti; il male ha fagocitato le nuove cellule impregnandole col suo putrido succo». «Sono ingiusto, lo so», dice Pahor con l' oggettività classica del grande scrittore. Necropoli, annoverato da decenni fra i capolavori della letteratura dello sterminio, è un libro eccezionale, che riesce a fondere l' assoluto dell' orrore - sempre qui e ora, presente e bruciante, eterno davanti a Dio - con la complessità della storia, la relatività delle situazioni e i limiti dell' intelligenza e della comprensione umana. I turisti che visitano il Lager, la guida che si guadagna il pane illustrandolo (mostrando ad esempio un tavolo di dissezione sul quale un professore universitario di Strasburgo effettuava vivisezioni e prove batteriologiche sui deportati, specialmente ma non soltanto zingari) o due innamorati che si baciano davanti al reticolato turbano il sopravvissuto in modo stridente. Ma - con la sua classica capacità di afferrare la totalità - Pahor subito dice a se stesso «che è puerile voler trasferire questi due innamorati nel mondo di una volta. Come non avrebbe senso chiedersi a chi, allora, sarebbe mai venuto in mente che un giorno qui avrebbero passeggiato coppiette innamorate. Noi eravamo immersi in una totalità apocalittica, nella dimensione del nulla; quei due invece galleggiano nella vastità dell' amore, che è altrettanto infinito, e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia sulle cose, le esclude o le esalta». Con questo grande libro Pahor affronta il tortuoso incubo della colpa (quantomeno sentita come tale) del sopravvissuto, di chi è tornato; incubo che tanto sembra aver pesato sul grandissimo Primo Levi, quando diceva che chi è tornato non ha visto veramente a fondo la Gorgone e chi l' ha vista non è tornato. (...) Necropoli è un ritratto a pieno campo e allo stesso tempo stringato - mai patetico - della vita (della non-vita, della morte) nel Lager. Un possente afflato umano coesiste con una nitida e fredda precisione, in una perfetta struttura narrativa che interseca il racconto del passato - della prigionia, rivissuta nel perenne presente dell' orrore - e il resoconto del presente, della rivisitazione molti anni dopo di quegli inferni bonificati e divenuti museo e memento di se stessi, non senza le ambiguità implicite in questo sempre incerto superamento ufficiale del passato. Necropoli è un' opera magistrale (se è lecito usare giudizi estetici per una testimonianza del male assoluto) anche per la sua limpida sapienza strutturale, per l' intrecciarsi di tempi - verbali ed esistenziali - che intessono il racconto. In un libro in cui non c' è la minima sbavatura vi sono momenti particolarmente indimenticabili: le sequenze cinematografiche della collettiva («multicefala») massa dei detenuti sotto il getto d' acqua delle docce, la rasatura del pube che assimila i prigionieri a cani che si annusino a vicenda, le tenaglie che trascinano gli scheletri su cumuli di altri scheletri, i dettagli del lavoro o delle cure prestate dai detenuti-infermieri come lo stesso autore, le forche per le impiccagioni, gli stratagemmi per salvarsi applicando un cartellino con un altro nome all' alluce di un cadavere, i deliri dei morenti; la bocca sempre urlante dei tedeschi assurta a caratteristica antropologica, il ciarpame di fetida biancheria dei morti purtuttavia preziosa per i vivi, il silenzio del fumo che esce dai camini; l' esigenza di ordine che paradossalmente permane pur nell' esecuzione dell' infame lavoro forzato, il segreto egoismo nell' aiuto prestato a un condannato con il sollievo di non essere al suo posto, i miserabili e benvenuti baratti di cicche e croste di pane fra i prigionieri; l' abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto. Momenti sbalzati davanti all' eternità con possente poesia, come quelle due ragazze che incrociano casualmente per strada la fila dei dannati e nemmeno se ne accorgono, li eliminano dal loro sguardo, come se su quella strada ci fossero soltanto la neve e la bella giornata di sole. Oppure il sorriso di un bambino che si affaccia alla finestra mentre in strada passa quella fila di vittime e sorride; un sorriso innocente, ma «anacronistico» al pari del sole che splende alto nel cielo. O, ancora, quel condannato che prima di essere impiccato sputa in faccia ai carnefici - talora basta uno sputo sul viso di qualcuno per lavare lo sporco dal volto del mondo. Boris Pahor è sopravvissuto. Non posso penetrare il suo cuore, ma sembra essere uscito da quella necropoli veramente vivo, nel pieno senso del termine; irrimediabilmente segnato ma non umanamente mutilato né spento; integro, a differenza di altri - anche di altri grandi scrittori - passati attraverso quell' inferno. Forse deve in parte quest' integrità alla sua vitalità, alla sua confidenza - che egli fa risalire alle sue origini popolari - con la fisicità elementare della vita, che gli permette di non sentirsi a disagio «a contatto con il marciume, con le feci e con il sangue». Questa forza, questa armonia con lo scorrere anche lutulento dell' esistenza e con la materia - fragile, talora repellente ma talora anche cristianamente gloriosa - di cui siamo fatti diventano fraterna assistenza a quei poveri sudici corpi accanto a lui, da lavare pulire e seppellire. Boris Pahor lo fa e lo narra con asciutta precisione fattuale, senz' alcun pathos umanitario. Perfino in quella necropoli tale resistenza umana è una speranza. Per sé e per gli altri. Chissà se, come dice la Scrittura, le ossa umiliate - tutte le ossa umiliate - un giorno esulteranno. Una voce slovena dalla città dei morti .

Corriere della sera 3 feb 2008


Antonella Lattanzi, ROMANOIR.IT - 04/06/2008
L'infermiere dei morti

Quando arriva nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof, l'io narrante di Necropoli è già un deportato. Triestino sloveno internato per antifascismo, Boris Pahor – scrittore e protagonista di questo memoir – ha già visto la propria fiducia nel mondo stracciata e incendiata in patria. L'incubo nazista ha infatti distrutto la vita di questo giovane speranzoso anni prima con l'incendio del Teatro sloveno di Trieste, intorno al quale i tedeschi ballavano come streghe a un sabbah. Ancora, come lo stesso Pahor racconta nel racconto La farfalla sull'attaccapanni, un altro rogo, questa volta del cervello e del cuore, aveva fatto brillare la fiducia degli sloveni come una bomba di potenza inaudita: il divieto di parlare la propria lingua nella propria terra. Diventai un negro, scrive Pahor in Necropoli, e mi accorsi che negare la lingua natia è una delle torture più terribili, perché la lingua è una componente fondamentale della fiducia, dell'amore per sé stessi.
Quando il giovane Boris indossa la camicia a strisce, gli zoccoli e il freddo pungente dei Vosgi, allora, è già un prigioniero che si nega categoricamente per tutta la prigionia qualsiasi pensiero rivolto al mondo dei vivi. Chi pensa alla vita, chi sfida la morte, muore, si ripete Pahor. Bisogna abituarsi al “mondo crematorio” del lager, vivere solo nel qui e ora. Sembra un film dell'orrore: chi sfida il mostro, il mostro l'uccide. Invece, no. È un memoir.
Pubblicato per la prima volta nel 1967, Necropoli ha dovuto attendere 41 anni per sbarcare in Italia, la terra in cui è nato Pahor, ora novantenne, grande scrittore classe 1913, che per il suo lavoro è stato più volte candidato al Premio Nobel, insignito del massimo riconoscimento sloveno, il premio Prešeren, nominato in Francia Officier de l'Ordre des Arts e des Lettres, e fregiato della Legion d'Onore dal presidente della Repubblica francese nel 2007. Appena pubblicato nel nostro Paese, Necropoli è divenuto un caso letterario, di struggente attualità persino rispetto alle vicende degli ultimi giorni, a testimonianza, come diceva Calvino, che un classico non invecchia mai, e sa regalare sempre nuovi significati.
Si svolge su due piani temporali paralleli, il memoir di Pahor. Nel primo, sono gli anni Sessanta, e Pahor ritorna in incognito nel lager dove ha vissuto sino alla Liberazione, mescolandosi ad altri turisti della memoria, ma rimanendo sempre un po' distaccato dal gruppo. Indossa dei comodi sandali. Nel secondo sono gli anni Quaranta. Pahor riesce a scampare la morte grazie a uno sloveno che lo assolda come infermiere nel lager e, impersonando le vesti di cerbero della morte degli altri, anche se un cerbero compassionevole, si salva. Indossa zoccoli che feriscono la carne gonfia nell'inverno terribile dei Vosgi, ma che soprattutto ossessionano con il loro rumore caratteristico e ossessivo gli incubi del sopravvissuto Boris. La penna di Pahor si sposta di continuo tra i due piani temporali, in una serie infinita di illuminazioni proustiane, però orrorifiche, che creano incessanti rimandi tra passato e presente. Eppure, non prevale l'orrore, il senso di colpa per essere vivo, l'umiliazione, l'odio panico. Pur presenti, questi sentimenti sono scalzati da una profonda speranza. Una coppia di amanti che si bacia poco lontano dal forno crematorio. Bambini che giocano. Una vecchia guida con la barba. La notte, gli adolescenti che scoprono l'amore in un campeggio ridente.
La vita vince.
Imbracciato il coraggio alla ricerca di una catarsi dolorosissima che ha bisogno di partire dall'inferno più profondo, di ricordare nel dettaglio i mucchietti di ossa imbracate in casacche a strisce – i reclusi del lager –, la vita cosparsa di dissenteria e di flemmoni, la notte dei minatori in cui la paura ruggisce come una piovra enorme, i tedeschi che abbaiano una lingua capace solo di uccidere e urlare, il forno crematorio ghignante e onnipresente, Pahor sboccia in un presente nuovo, in cui ha voglia di credere. Con una fiducia e un sorriso che oggi, adesso, qui, possono insegnare il cammino anche a noi