"Nella
grande caldaia cubica appoggiata sopra il forno", dice, "si
faceva scaldare l'acqua delle docce, che vedete al di là di quel
portello vetrato, a destra". I giovani si accalcano intorno al
finestrino, mentre io ho l'impressione che giù dalla nostra pelle
scorra ancora l'acqua saponosa, gialla di quel sapone sabbioso e
ruvido, e che i corpi di quelli senza più forze giacciano ancora sul
cemento e rantolino sotto gli zampilli caldi. Mi viene da pensare che
le prime volte neppure io ero conscio di quale materiale fosse usato
del fuochista per scaldare l'acqua; eppure sento che, anche se
l'avessi saputo, nulla sarebbe cambiato nel mio stato d'animo. Questa
insensibilità mi contraddistingue nella folla dei gitanti
domenicali; allo stesso tempo mi pare che i morti, allora, offrendomi
in dono un po' d'acqua calda, mi abbiano accolto in una confraternita
più sacra di tutte le confraternite generate dalle religioni. La
voce proveniente dell'altoparlante dice ancora che il lungo attrezzo
ricurvo appeso al muro serviva al fuochista per livellare la cenere,
mentre col lungo tirabrace l'ammucchiava.
da
Necropoli
di
Boris Pahor
Fazi
Editore 2009
Una
breve doccia calda, concessa saltuariamente, ti dà un poco di
sollievo alle ossa devastate dal gelo e dalla fame, ma sai che il
fuoco della caldaia è alimentato dai corpi di chi ti dormiva
accanto.
Slavo
triestino, non ebreo, eppure anche lui vittima di quello stesso
destino che ha accomunato esseri umani deportati da ogni nazione per
il solo fatto di appartenere a minoranze invise al potere, di
militare tra gli oppositori ai regimi totalitari o di essere loro
parenti, amici o semplicemente conoscenti. Il dramma della
consapevolezza del proprio progressivo abbrutimento, del farsi
insensibile per istinto di sopravvivenza, del lento inesorabile
venire meno di tutto ciò che permette di distinguere un essere umano
da una bestia.
«Necropoli
riesce a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessità della
storia».
dall'introduzione
di Claudio Magris
Campo
di concentramento di Natzweiler-Struthof sui Vosgi. L’uomo che vi
arriva, un pomeriggio d’estate insieme a un gruppo di turisti, non
è un visitatore qualsiasi: è un ex deportato che a distanza di anni
torna nei luoghi dove era stato internato. Subito, di fronte alle
baracche e al filo spinato trasformati in museo, il flusso della
memoria comincia a scorrere e i ricordi riaffiorano con il loro
carico di dolore e di commozione. Ritornano la sofferenza per la fame
e il freddo, l’umiliazione per le percosse e gli insulti, la pena
profondissima per quanti, i più, non ce l’hanno fatta. E come
fotogrammi di una pellicola, impressa nel corpo e nell’anima, si
snodano le infinite vicende che ci parlano di un orrore che in nessun
modo si riesce a spiegare, unite però alla solidarietà tra
prigionieri, a un’umanità mai del tutto sconfitta, a un desiderio
di vivere che neanche in circostanze così drammatiche si è mai
perso completamente. Scritto con un linguaggio crudo che non cede
all’autocommiserazione, Necropoli è un libro autobiografico
intenso e sconvolgente. E se Boris Pahor ci racconta la sua
esperienza del mondo crematorio perché la memoria non si perda e la
storia non sia passata invano, quella che ci dà non è però solo la
fedele testimonianza delle atrocità dei lager nazisti, è anche un
emozionante documento sulla capacità di resistere e sulla generosità
dell’individuo.
«Un
libro sconvolgente, la visita a un campo della morte e il riaffiorare
di immagini intollerabili descritte con una precisione allucinata e
una eccezionale finezza di analisi».
«Le
Monde»
«Un
memoir indimenticabile ed evocativo. Con la sua voce intensa e
originale Pahor penetra nel cuore dei lettori e li conduce nel luogo
dove perse la maggior parte dei suoi compagni e molto di sé».
«Kirkus
Review»
«Non
c’è modo di evitare lo sguardo coraggioso e diretto di Boris
Pahor. Il suo nome è stato giustamente accostato a quello di Primo
Levi, Imre Kértesz e Robert Antelme». «Süddeutsche Zeitung»
Vincitore
del Premio Internazionale Viareggio Versilia 2008
Vincitore
del premio della giuria al Premio Napoli 2008
Vincitore
del Premio Latisana per il Nord-Est 2008
Vincitore
del Premio Resistenza 2008
Vincitore
del Premio Napoli "Libro dell'anno"
LAPOLIS.IT - 13/02/2008
PAHOR,
LA COLPA DI ESSERE SOPRAVVISSUTO
di
Claudio Magris
Durante
una visita al Lager di Natzweiler-Struthof, nel quale molti anni
prima si era trovato faccia a faccia con l' orrore e l' abiezione più
inconcepibili della nostra storia, Boris Pahor osserva un carpentiere
che sostituisce - nel campo che è ora un luogo di memoria e di
pellegrinaggio per ex deportati come lui e per turisti dell' anima
più o meno realmente consapevoli di ciò che stanno vedendo - alcune
assi marcite di una baracca dove un tempo avevano vissuto (se in tal
caso è lecito usare questo verbo) i prigionieri. «Il mio animo -
scrive - si ribellava a quelle toppe bianche frammiste alle assi
annerite, dilavate e consunte; non tanto per il colore, perché
sapevo che quell' operaio avrebbe ridipinto le nuove assi rendendole
uguali alle vecchie; semplicemente non potevo sopportare la presenza
di quei pezzi di legno grezzo piallato di recente. Era come se
qualcuno cercasse di inoculare cellule fresche e viventi in un
putridume morto, come se qualcuno innestasse una gamba bianca in un
mucchio di mummie annerite e appiattite. Ero per l' intangibilità
della dannazione. Ebbene, ora non riesco più a distinguere i pezzi
aggiunti; il male ha fagocitato le nuove cellule impregnandole col
suo putrido succo». «Sono ingiusto, lo so», dice Pahor con l'
oggettività classica del grande scrittore. Necropoli, annoverato da
decenni fra i capolavori della letteratura dello sterminio, è un
libro eccezionale, che riesce a fondere l' assoluto dell' orrore -
sempre qui e ora, presente e bruciante, eterno davanti a Dio - con la
complessità della storia, la relatività delle situazioni e i limiti
dell' intelligenza e della comprensione umana. I turisti che visitano
il Lager, la guida che si guadagna il pane illustrandolo (mostrando
ad esempio un tavolo di dissezione sul quale un professore
universitario di Strasburgo effettuava vivisezioni e prove
batteriologiche sui deportati, specialmente ma non soltanto zingari)
o due innamorati che si baciano davanti al reticolato turbano il
sopravvissuto in modo stridente. Ma - con la sua classica capacità
di afferrare la totalità - Pahor subito dice a se stesso «che è
puerile voler trasferire questi due innamorati nel mondo di una
volta. Come non avrebbe senso chiedersi a chi, allora, sarebbe mai
venuto in mente che un giorno qui avrebbero passeggiato coppiette
innamorate. Noi eravamo immersi in una totalità apocalittica, nella
dimensione del nulla; quei due invece galleggiano nella vastità
dell' amore, che è altrettanto infinito, e che altrettanto
incomprensibilmente signoreggia sulle cose, le esclude o le esalta».
Con questo grande libro Pahor affronta il tortuoso incubo della colpa
(quantomeno sentita come tale) del sopravvissuto, di chi è tornato;
incubo che tanto sembra aver pesato sul grandissimo Primo Levi,
quando diceva che chi è tornato non ha visto veramente a fondo la
Gorgone e chi l' ha vista non è tornato. (...) Necropoli è un
ritratto a pieno campo e allo stesso tempo stringato - mai patetico -
della vita (della non-vita, della morte) nel Lager. Un possente
afflato umano coesiste con una nitida e fredda precisione, in una
perfetta struttura narrativa che interseca il racconto del passato -
della prigionia, rivissuta nel perenne presente dell' orrore - e il
resoconto del presente, della rivisitazione molti anni dopo di quegli
inferni bonificati e divenuti museo e memento di se stessi, non senza
le ambiguità implicite in questo sempre incerto superamento
ufficiale del passato. Necropoli è un' opera magistrale (se è
lecito usare giudizi estetici per una testimonianza del male
assoluto) anche per la sua limpida sapienza strutturale, per l'
intrecciarsi di tempi - verbali ed esistenziali - che intessono il
racconto. In un libro in cui non c' è la minima sbavatura vi sono
momenti particolarmente indimenticabili: le sequenze cinematografiche
della collettiva («multicefala») massa dei detenuti sotto il getto
d' acqua delle docce, la rasatura del pube che assimila i prigionieri
a cani che si annusino a vicenda, le tenaglie che trascinano gli
scheletri su cumuli di altri scheletri, i dettagli del lavoro o delle
cure prestate dai detenuti-infermieri come lo stesso autore, le
forche per le impiccagioni, gli stratagemmi per salvarsi applicando
un cartellino con un altro nome all' alluce di un cadavere, i deliri
dei morenti; la bocca sempre urlante dei tedeschi assurta a
caratteristica antropologica, il ciarpame di fetida biancheria dei
morti purtuttavia preziosa per i vivi, il silenzio del fumo che esce
dai camini; l' esigenza di ordine che paradossalmente permane pur
nell' esecuzione dell' infame lavoro forzato, il segreto egoismo
nell' aiuto prestato a un condannato con il sollievo di non essere al
suo posto, i miserabili e benvenuti baratti di cicche e croste di
pane fra i prigionieri; l' abiezione storica divenuta squallore
cosmico, vuoto assoluto. Momenti sbalzati davanti all' eternità con
possente poesia, come quelle due ragazze che incrociano casualmente
per strada la fila dei dannati e nemmeno se ne accorgono, li
eliminano dal loro sguardo, come se su quella strada ci fossero
soltanto la neve e la bella giornata di sole. Oppure il sorriso di un
bambino che si affaccia alla finestra mentre in strada passa quella
fila di vittime e sorride; un sorriso innocente, ma «anacronistico»
al pari del sole che splende alto nel cielo. O, ancora, quel
condannato che prima di essere impiccato sputa in faccia ai carnefici
- talora basta uno sputo sul viso di qualcuno per lavare lo sporco
dal volto del mondo. Boris Pahor è sopravvissuto. Non posso
penetrare il suo cuore, ma sembra essere uscito da quella necropoli
veramente vivo, nel pieno senso del termine; irrimediabilmente
segnato ma non umanamente mutilato né spento; integro, a differenza
di altri - anche di altri grandi scrittori - passati attraverso
quell' inferno. Forse deve in parte quest' integrità alla sua
vitalità, alla sua confidenza - che egli fa risalire alle sue
origini popolari - con la fisicità elementare della vita, che gli
permette di non sentirsi a disagio «a contatto con il marciume, con
le feci e con il sangue». Questa forza, questa armonia con lo
scorrere anche lutulento dell' esistenza e con la materia - fragile,
talora repellente ma talora anche cristianamente gloriosa - di cui
siamo fatti diventano fraterna assistenza a quei poveri sudici corpi
accanto a lui, da lavare pulire e seppellire. Boris Pahor lo fa e lo
narra con asciutta precisione fattuale, senz' alcun pathos
umanitario. Perfino in quella necropoli tale resistenza umana è una
speranza. Per sé e per gli altri. Chissà se, come dice la
Scrittura, le ossa umiliate - tutte le ossa umiliate - un giorno
esulteranno. Una voce slovena dalla città dei morti .
Corriere
della sera 3 feb 2008
Quando arriva nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof, l'io narrante di Necropoli è già un deportato. Triestino sloveno internato per antifascismo, Boris Pahor – scrittore e protagonista di questo memoir – ha già visto la propria fiducia nel mondo stracciata e incendiata in patria. L'incubo nazista ha infatti distrutto la vita di questo giovane speranzoso anni prima con l'incendio del Teatro sloveno di Trieste, intorno al quale i tedeschi ballavano come streghe a un sabbah. Ancora, come lo stesso Pahor racconta nel racconto La farfalla sull'attaccapanni, un altro rogo, questa volta del cervello e del cuore, aveva fatto brillare la fiducia degli sloveni come una bomba di potenza inaudita: il divieto di parlare la propria lingua nella propria terra. Diventai un negro, scrive Pahor in Necropoli, e mi accorsi che negare la lingua natia è una delle torture più terribili, perché la lingua è una componente fondamentale della fiducia, dell'amore per sé stessi.
Quando il giovane Boris indossa la camicia a strisce, gli zoccoli e il freddo pungente dei Vosgi, allora, è già un prigioniero che si nega categoricamente per tutta la prigionia qualsiasi pensiero rivolto al mondo dei vivi. Chi pensa alla vita, chi sfida la morte, muore, si ripete Pahor. Bisogna abituarsi al “mondo crematorio” del lager, vivere solo nel qui e ora. Sembra un film dell'orrore: chi sfida il mostro, il mostro l'uccide. Invece, no. È un memoir.
Pubblicato per la prima volta nel 1967, Necropoli ha dovuto attendere 41 anni per sbarcare in Italia, la terra in cui è nato Pahor, ora novantenne, grande scrittore classe 1913, che per il suo lavoro è stato più volte candidato al Premio Nobel, insignito del massimo riconoscimento sloveno, il premio Prešeren, nominato in Francia Officier de l'Ordre des Arts e des Lettres, e fregiato della Legion d'Onore dal presidente della Repubblica francese nel 2007. Appena pubblicato nel nostro Paese, Necropoli è divenuto un caso letterario, di struggente attualità persino rispetto alle vicende degli ultimi giorni, a testimonianza, come diceva Calvino, che un classico non invecchia mai, e sa regalare sempre nuovi significati.
Si svolge su due piani temporali paralleli, il memoir di Pahor. Nel primo, sono gli anni Sessanta, e Pahor ritorna in incognito nel lager dove ha vissuto sino alla Liberazione, mescolandosi ad altri turisti della memoria, ma rimanendo sempre un po' distaccato dal gruppo. Indossa dei comodi sandali. Nel secondo sono gli anni Quaranta. Pahor riesce a scampare la morte grazie a uno sloveno che lo assolda come infermiere nel lager e, impersonando le vesti di cerbero della morte degli altri, anche se un cerbero compassionevole, si salva. Indossa zoccoli che feriscono la carne gonfia nell'inverno terribile dei Vosgi, ma che soprattutto ossessionano con il loro rumore caratteristico e ossessivo gli incubi del sopravvissuto Boris. La penna di Pahor si sposta di continuo tra i due piani temporali, in una serie infinita di illuminazioni proustiane, però orrorifiche, che creano incessanti rimandi tra passato e presente. Eppure, non prevale l'orrore, il senso di colpa per essere vivo, l'umiliazione, l'odio panico. Pur presenti, questi sentimenti sono scalzati da una profonda speranza. Una coppia di amanti che si bacia poco lontano dal forno crematorio. Bambini che giocano. Una vecchia guida con la barba. La notte, gli adolescenti che scoprono l'amore in un campeggio ridente.
La vita vince.
Imbracciato il coraggio alla ricerca di una catarsi dolorosissima che ha bisogno di partire dall'inferno più profondo, di ricordare nel dettaglio i mucchietti di ossa imbracate in casacche a strisce – i reclusi del lager –, la vita cosparsa di dissenteria e di flemmoni, la notte dei minatori in cui la paura ruggisce come una piovra enorme, i tedeschi che abbaiano una lingua capace solo di uccidere e urlare, il forno crematorio ghignante e onnipresente, Pahor sboccia in un presente nuovo, in cui ha voglia di credere. Con una fiducia e un sorriso che oggi, adesso, qui, possono insegnare il cammino anche a noi